I colori delle emozioni e la musica.
Pagina
notturna del mio diario. Verso la
mezzanotte accendo lo stereo e indosso le cuffie. Continuo
ad ascoltare la musica che mi emoziona. Penso a varie persone, belle
e brutte, della mia vita presente e del mio passato. Vado a dormire alle 2.45. La
mattina dopo mi sveglio e sento un grande benessere.
L’emozione forte di ieri notte (musica, anche al buio: sorridendo, scherzando, piangendo,
sognando, amando, credendo ora anche in me stesso) mi ha fatto bene.
Eppure c’è chi, dopo cento anni di studi scientifici di
psicologia, crede ancora che emozionarsi sia negativo e che
alimentare nei giovani questo atteggiamento sia scorretto
pedagogicamente. Secondo certi esperti occorrerebbe reprimere
le emozioni per lasciare spazio alla mera speculazione intellettuale.
Bisognerebbe, secondo alcuni, respingere l’abbandono spontaneo
alla magia del suono e del ritmo, che è temuta come una sorta di
narcosi musicale; bisognerebbe piuttosto proporre una fredda
analisi, vigilando nella costante attenzione contro il rischio di un
trasporto emotivo, che in realtà non si saprebbe accettare, né
tanto meno orientare. L’ideale della fruizione musicale sarebbe
dunque (molti l’hanno inteso così) un compassato self control.
No! Qui c’è un equivoco di fondo: la musica allora sarebbe solo un
arido esercizio intellettuale. Ciò è necessario, ma non è
sufficiente. La musica deve anche emozionarci. Noi non abbiamo
più il diritto di continuare a reprimere le nostre emozioni. Penso
ad esempio al jazz e a tutta la musica afroamericana: in questa
tradizione la componente emotiva è assolutamente essenziale, è
intrinseca alla creazione artistica. E, pensandoci bene, lo è stato
anche per tutti i maggiori compositori della tradizione europea.
Certo,
c’è emozione ed emozione, le emozioni sono diverse da persona a
persona e, per ogni persona, sono diverse da momento a momento; ci
sono emozioni che producono benessere, ci sono emozioni che producono
malessere: emozioni che conducono verso la vita, emozioni che
conducono verso la morte. Ecco perché possiamo parlare di colore delle emozioni. Qui
subentra allora il lavoro di psicoanalisi: e se non stiamo troppo
male possiamo tentare di esercitare con successo l’autoanalisi.
Dobbiamo imparare anzitutto ad accettare le nostre emozioni e
poi anche ad integrarle, a convertirle: convertire nel senso
di tramutare, ma anche nel senso di indirizzare, dirigere
(la parola magica è, dunque, conversione).
Ci sono poi anche
“emozioni intellettuali”: certamente non ho inteso svilire o
sminuire il valore dell’intelligenza! L’intelligenza può
felicemente convivere con l’emotività. A me ad esempio emoziona il
contrappunto, mi emoziona lo sviluppo tematico, insomma mi emoziona
la creatività intelligente (stamattina, nel mio benessere
postemozionale, ho analizzato la Sonata op. 10 n. 2 di Beethoven con
una mia collega). C’è però tutta una storia della cultura moderna
e contemporanea che rifiuta di accettare la natura e l'esistenza
stessa della vita emotiva: queste tendenze razionaliste ignorano una
dimensione essenziale della persona umana.
Persino
nel rapporto con Dio non siamo lasciati liberi di vivere
emotivamente: i teologi (occidentali, razionalisti) diffidano da un
rapporto emotivo con Dio. Anche in questo caso ripeto: l’intelligenza
può convivere beneficamente con l’emotività. Nella mia vita di
fede ad esempio è fondamentale la testimonianza dei fratelli
afroamericani, che cantano e ballano per esprimere la loro fede.
Penso alla grande Mahalia Jackson, che ha cantato e ballato e perfino “sudato” la fede per
le masse dei diseredati e degli oppressi e per tutti gli uomini di
buona volontà.
Penso al sublime spiritual We shall overcome che accompagnava
il movimento pacifista nero: nella grandiosa manifestazione a
Washington nel 1963 i dimostranti erano guidati da Martin Luther King
e tra loro c’era anche Harry Belafonte, il celebre cantante del
calypso e di Banana Boat.
Penso a
Père Duval, il dolcissimo e malinconico chansonnier della fede, una fede travagliata, non semplice, ma indomita.
Père Duval, il dolcissimo e malinconico chansonnier della fede, una fede travagliata, non semplice, ma indomita.
Penso però anche a Johann
Sebastian Bach, l’autore che molti ritengono troppo cerebrale: la
Passione secondo Matteo è invece musica di altissima
temperatura emotiva, anche se la distanza storica che ci separa
dall’autore ci pone problemi complessi di interpretazione; ma le
intuizioni critiche di Spitta e di Schweitzer sono ancora oggi valide
(riprese anzi dagli studiosi contemporanei più attenti al rapporto
tra musica e psicologia) e stanno a dimostrare la realtà di una
emotività musicale che percorre i secoli.
Penso anche all’uso
della musica nel film Vangelo secondo Matteo di Pasolini: la musica nel cinema ha spesso una funzione di coinvolgimento emotivo
e Pasolini mi sembra consapevole e sensibilissimo nel conseguire
questo obiettivo. Ovviamente si potrebbero fare moltissimi altri esempi di uso efficace della musica nel cinema, per non parlare dell'importanza delle emozioni nell'opera lirica, in particolare nel periodo romantico.
Cosa
concluderne? Se enfatizziamo solo l’aspetto intellettuale e
reprimiamo l’emotività, siamo destinati alla frustrazione,
all’impotenza, alla nevrosi: con buona pace del nostro ruolo di
pedagoghi. Continui pure,
chi vuole, a reprimere le proprie emozioni: io non lo seguo, perché
ho capito (sperimentando su me stesso) che la musica può essere
praticata come autoterapia: la musica è un linguaggio che ci
permette di liberare e convertire le nostre emozioni.
(Sera-notte
tra il 29 e il 30 gennaio 1996;
ancora valido nel 2020!)
ancora valido nel 2020!)
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