lunedì 26 dicembre 2022

Der König in Thule di Schubert-Goethe. Una lezione per il corso di Maestro Collaboratore

La lezione su questo celebre Lied di Schubert (https://youtu.be/KjEdNOULDWY) è pensata per gli studenti del corso per Maestro Collaboratore. Io sono un pianista accompagnatore, non un cantante. Quello che cerco di dimostrare con questa operazione è che il pianista, accingendosi ad accompagnare un cantante, deve avere una consapevolezza di tutti gli aspetti della vocalità: dunque, qualche nozione di tecnica vocale; la comprensione e la corretta pronuncia del testo, anche se in una lingua diversa dalla propria lingua madre; il fraseggio, le dinamiche, l’interpretazione. 

Per fare questo è utilissimo esercitarsi come ho fatto io ora, e cioè imparare a cantare sopra il proprio accompagnamento. Di solito è sufficiente il cosiddetto “accennare con la voce”, in particolare quando si eseguono pezzi d’opera affidati a personaggi che hanno una vocalità diversa dalla propria quanto ad estensione e tessitura. Nel repertorio di musica vocale da camera, invece, è anche possibile eseguire un pezzo cercando la tonalità più adatta alla propria voce. In questo modo ci si può avvicinare maggiormente alla pratica effettiva del cantante e si può curare in modo più efficace l’espressione che si vuol dare alla musica.

Schubert Lieder
Franz Schubert
Così ho fatto io con il bellissimo Der König in Thule, che è un Lied di Schubert su poesia di Goethe. L’originale sarebbe in re minore, ma nella musica vocale da camera è prassi abituale trasportare i pezzi in base alla propria tessitura vocale. Le raccolte di Lieder sono tradizionalmente edite in varie tonalità, per voce acuta, per voce media e per voce grave. Di questo Lied conosciamo infatti le versioni di Dietrich Fischer-Dieskau e di Hermann Prey, entrambe in si minore, ossia una terza sotto rispetto all’originale; e quella di Christa Ludwig in sol minore, ossia una quinta sotto. Io ho scelto la tonalità di sol minore, che risulta comoda per la mia voce, nella sua tessitura centrale. 

Ho studiato la parte del canto dapprima vocalizzando sulla vocale più comoda, un misto tra la ‘a’ e la ‘o’; poi ho cantato utilizzando le sole vocali del testo ed infine ho cantato con il testo. Ovviamente ho studiato anche la parte pianistica, che in questo caso è particolarmente semplice, ma che deve comunque assecondare la voce nel fraseggio e nelle dinamiche, ed in questo consiste principalmente l’arte dell’accompagnamento pianistico.

Goethe Faust
Johann Wolfgang Goethe
Goethe scrisse la poesia nel 1774; si tratta di una leggenda che racconta la verità dei sentimenti umani, evocata in una mitica isola del Nord. Si tratta di un anziano re che, avendo ricevuto in dono dalla sua amata sposa morente una coppa dorata, conserva amorevolmente questo oggetto, che diventa il simbolo della sua fedeltà al ricordo dell’amata, fino alla sua propria morte. 

La poesia del 1774 fu successivamente inserita dal poeta nella prima parte del Faust, che fu concepita negli stessi anni e poi pubblicata nel 1808. Nel poema egli attribuisce questo canto al personaggio di Gretchen (Margherita), che intende così esprimere la forza della fedeltà amorosa.

Lied di Schubert
Schubert compose il Lied nel 1816, quando aveva solo 19 anni, anche se nel catalogo cronologico porta già il numero 367. Il compositore, cogliendo la semplicità narrativa del testo, ed in analogia con la sua chiarezza formale, sceglie di comporre un Lied strofico, nel quale anche la scansione delle frasi è molto regolare; tuttavia, così come la poesia racchiude nella sua forma classica un accento già fortemente romantico, così la musica lo esalta con la bellezza incantevole della melodia e la pregnanza delle successioni armoniche. 

Dobbiamo dunque comprendere e pronunciare correttamente il testo, tenendo anche presente che nei Lieder strofici, anche se la musica non cambia, il carattere e quindi anche le scelte espressive possono variare nelle varie strofe in base al senso delle parole. 

Per quanto riguarda la pronuncia, consiglio l’ascolto attento di un grande cantante di madre lingua, quindi i tre che ho citato sono ottimi: Fischer-Dieskau, Prey, la Ludwig. Si può anche notare come i cantanti gestiscano la pronuncia in funzione delle esigenze vocali, pur senza mai modificare le parole

Per quanto riguarda la comprensione del testo, suggerisco di fare innanzitutto una traduzione letterale, parola per parola, che ci permette di entrare nel significato di ogni vocabolo che dovremo esprimere nella musica; ed è importante che questo lavoro preliminare sia svolto personalmente, con l’ausilio di una buona grammatica e di un buon dizionario. Dopo questo, sarà utile confrontare qualche buona traduzione già esistente, che di solito non è letterale, ma cerca di rendere, per quanto possibile, l’afflato poetico dell’originale. 

Può capitare anche di trovare errori nelle traduzioni esistenti. Io ad esempio ho trovato un errore importante proprio nella traduzione di questo Lied, in un sito web che pure, solitamente, è attendibile; mi sono perciò confrontato con la classica traduzione di Giovita Scalvini (1791-1843), poeta italiano contemporaneo di Goethe, e così ho capito le vere intenzioni del poeta, peraltro intuibili dal senso complessivo della poesia. Ne parlo nel video, dove si può trovare anche la traduzione completa del testo.

https://youtu.be/KjEdNOULDWY


mercoledì 14 dicembre 2022

Fede e ragione

 In una autorevole rivista di una importante istituzione accademica leggo un numero risalente al 2008, che tratta questo tema, con alcuni contributi di studiosi cattolici e protestanti. 


Il problema, ci avverte la rivista, già ben vivo nel dibattito medievale, si sviluppa con il materialismo filosofico di matrice illuminista, spesso animato da fervore polemico anticristiano ed antireligioso, da un lato, contrapposto ad una sorta di paura della modernità, evidenziata spesso sul fronte cristiano. Perciò i saggisti della rivista, che sono teologi cristiani, cercano un punto di convergenza fra le due posizioni estreme, accogliendo anche le provocazioni della "parte avversa" per quanto possano rappresentare uno stimolo all'approfondimento della tematica. 

In particolare, due studiosi, uno cattolico ed uno protestante, cercano di sviscerare il problema, partendo da una attenta lettura delle posizioni contrarie alla fede, che oggi vengono definite "atee, agnostiche e razionaliste" e rivendicano il ruolo centrale della scienza nel cercare di rispondere a tutte le domande urgenti che sono poste alla coscienza degli abitatori di questo pianeta. 

Fa un po' sorridere che entrambi gli studiosi prendano come riferimento non solo autori di alto spessore culturale e scientifico, ma anche personaggi che devono la loro fama prevalentemente all'esposizione mediatica nei talk show, cosa che un po' sminuisce il valore del dibattito: sappiamo bene, infatti, come i mass media, la televisione innanzitutto ed attualmente i social networks, diano visibilità a personaggi di vario tipo e spessore, spesso onnipresenti, ma non per questo motivo accreditabili di particolare considerazione nel dibattito culturale più alto. Tuttavia, entrambi i nostri studiosi citano in particolare uno di questi personaggi, attribuendogli evidentemente una autorevolezza significativa.


I due saggi si caratterizzano per una esposizione che intende rispondere alle obiezioni degli "atei razionalisti" (obiezioni, invero, a volte banalizzanti, rispetto alla complessità del problema) affermando che fede e scienza possono convivere, in una visione moderna e laica della vita e dei problemi umani, specialmente di quelli sociali, che coinvolgono in vario modo lo sviluppo tecnologico: pensiamo ad esempio ai progressi della scienza medica.

Vengono trattate le più consuete argomentazioni: dal semplice agnosticismo, che si limita ad affermare la non necessità di Dio nell'argomentazione scientifica, alla più complessa trattazione del problema del male nella creazione e della sofferenza innocente; non manca poi il riferimento al classico argomento psicologico, secondo il quale la religiosità sarebbe la risposta ingenua a bisogni e desideri irrisolti, in alternativa al piano della coscienza razionale. L'irrazionalità della fede dovrebbe condurre invece ad una "sana accettazione della finitudine", ossia all'ateismo. La ragione, mitizzata (quasi religiosamente?) nel suo potere di discernimento, potrebbe arrivare a dimostrare l'inesistenza di Dio. 


Questa affermazione mi fa venire in mente una vecchia vignetta sovietica degli anni Sessanta, nella quale era raffigurato un astronauta che, sorridendo dallo spazio, affermava: "Qui Dio non c'è!": un esempio di banalizzazione del problema, tipico peraltro di ogni propaganda di regime, che è portata a semplificare per sedurre facilmente il pubblico. 

A fronte di questi argomenti, può essere evidenziata la natura dinamica della conoscenza scientifica, che non è data una volta per tutte, ma rappresenta una continua evoluzione, tra ricerca, conferme e smentite. In conclusione, dunque, fede e ragione potrebbero coesistere, senza essere necessariamente contrapposte. Il teologo protestante, poi, ci tiene a sottolineare la "vocazione adulta" della fede, il modello del "cristiano maggiorenne, in grado di rendere conto della propria fede". 


Due aspetti sono ignorati dai due teologi, nel loro tentativo di coniugare fede e ragione, tradizione e modernità. Innanzitutto ignorano che la ragione illuminista è stata messa in crisi, definitivamente, dalla psicoanalisi, che ha affermato la presenza di un inconscio che condiziona i nostri comportamenti ben al di là del controllo razionale; ma, come ho già esposto nel post precedente, la teologia cristiana contemporanea continua ad ignorare, o addirittura a disprezzare, le acquisizioni della psicoanalisi (che, tra l'altro, nel suo approccio metodologico è a tutti gli effetti una scienza). 


Il secondo argomento del tutto ignorato dai due studiosi è il fatto che la scienza, la ricerca, lo sviluppo incessante della tecnologia sono condizionati dal Potere economico: sono ben lontani i tempi delle "magnifiche sorti e progressive", che già il Leopardi, nella prima metà dell'Ottocento, irrideva come illusioni. Siamo invece in un'epoca nella quale il trionfo del capitalismo condiziona fortemente le scelte della scienza, la quale, tutt'altro che libera, è asservita agli interessi del potere economico, come ci insegnava già cinquanta anni fa Foucault. La scienza non è un principio astratto, non è un valore assoluto, ma è una situazione in continua mobilità (ciò che è nella sua natura, altrimenti diventa a sua volta un mito, da seguire con approccio religioso), e purtroppo su questa mobilità agisce e interferisce l'interesse materiale del Potere economico. Siamo purtroppo nel tempo del transumanesimo: il tempo in cui l'uso perverso della scienza e lo sviluppo incontrollato della tecnologia portano ad escludere e trapassare i bisogni umani essenziali. La mitizzazione della macchina, vera religione laica e materialista del nostro tempo, comporta l'alienazione della persona umana e la perdita di ogni valore umanistico. Questa, mi pare, dovrebbe essere la prima preoccupazione sia degli atei razionalisti, sia dei teologi cristiani: su questo terreno dovrebbero confrontarsi e, magari, allearsi. 

Invece, quest'ultimo aspetto è del tutto ignorato dai due teologi. così come dai loro colleghi atei: e non è un caso che tutti insieme, atei e cristiani, si siano ritrovati, anni dopo, schierati con atteggiamento militante, a difendere un settore parziale della scienza, contrapposto ad un altro, addirittura sventolando la bandiera della testimonianza etica, come se l'etica stessa potesse essere ricondotta ad un principio assoluto, e dunque, ancora una volta, religioso, nel senso deteriore e davvero antiscientifico della parola. "Credo nella scienza" è il nuovo slogan oggi di moda: ma, a ben vedere, è un ossimoro.

Infine li ritroviamo insieme, questi due teologi e gli stessi referenti atei con i quali avevano dialogato nel 2008, a rincorrere oggi la tragica escalation bellicista, come se lo scontro fra due superpotenze fosse un conflitto tra "buoni" e "cattivi". E così, teologi cristiani e atei razionalisti si ritrovano, a braccetto, a riproporre le antiche, "cristianissime" e "razionali" crociate. 


domenica 11 dicembre 2022

Anoressia e fede cristiana

 L'anoressia è uno dei fenomeni ricorrenti in questa nostra società tormentata. Le cause di questo disturbo sono molteplici e non è possibile ridurle a poche formule di comodo; occorre un approfondimento che sia in grado di scandagliarne la complessità, sotto molteplici aspetti: sociali, psicologici ed anche spirituali.

Anoressia
Clara Brunello, Viva di nuovo

E' ciò che riesce a fare molto bene un libro che mi è capitato di leggere in questi giorni: "Viva di nuovo. Come sono guarita dall'anoressia" di Clara Brunello (Milano, Paoline, 2012). L'autrice "è una giovane donna del Nord Italia, che svolge una attività artistica a livello internazionale e ha scritto diversi libri. Avendo anche lei dolorosamente attraversato e poi positivamente superato l'esperienza dell'anoressia attorno ai venticinque anni, cerca da allora di offrire una speranza e una testimonianza a persone che sperimentano la stessa sofferenza", come si legge nel risvolto di copertina.

Ed effettivamente il valore del libro sta nel fatto di non essere un testo teorico, bensì la testimonianza viva e drammatica, drammaticamente sincera, di un vissuto che l'Autrice ha attraversato con la propria personale sofferenza. Il dono che ella ci fa è duplice: da un lato una autoanalisi molto approfondita e sensibile, dall'altro una apertura verso la dimensione spirituale, che si traduce in una relazione positiva con Dio, mediante la preghiera, la meditazione della Parola biblica e l'esercizio di pratiche liturgiche efficaci.

Bellissimo libro, dunque, di cui consiglio la lettura sia a chi attraversa questa difficoltà, sia a chi desidera essere d'aiuto nei confronti delle persone sofferenti. Aggiungerò in coda una osservazione critica, che certamente non intende sminuire il valore del testo, ma piuttosto evidenziare un problema culturale importante nella riflessione teologica contemporanea.

Due sono i grandi valori di questo libro. Il primo è la capacità acuta e sensibile di analisi e di autoanalisi. Vengono analizzate le situazioni esistenziali che caratterizzano la persona, che sono molteplici e non riconducibili ad un'unica causa. Vi è evidenziata la frenesia di una attività di lavoro e di studio che diventa ossessiva, e si complica con l'importanza eccessiva data al bisogno di successo, di fama, di celebrità, l'ansia di prestazione e la competitività, con conseguenze negative anche nelle relazioni umane, "inquinate" dalla condizione di concorrenza. Quindi, un senso di superiorità e di orgoglio; ma, accanto a questo, il suo aspetto opposto, solo apparentemente contradditorio, ossia la svalutazione di sé, il complesso di inferiorità, l'insicurezza, il senso di colpa, l'eccesso di autocontrollo e il perfezionismo, che coinvolgono l'aspetto fisico (di cui l'Autrice tenta di sminuire l'importanza, ma che ritorna come un letimotiv incessante nel testo), le relazioni amicali e quelle affettive. E, al tempo stesso, anche una virtù come la "bontà" viene riconosciuta nel suo lato ambiguo, ad esempio come repressione della rabbia, che può avere effetti negativi sulla persona. Emerge anche, tra le righe, una difficoltà di relazione con l'altro sesso: "io vivevo anche la relazione con i ragazzi su un piano di competizione. Mi sentivo una "perdente" nei confronti delle mie coetanee, che mi apparivano tutte assai più belle e più in forma di me e, soprattutto, capaci di attirare l'attenzione dei ragazzi molto più di quanto accadeva a me" (p.14). In conclusione, vi è descritta una forte ambivalenza nei confronti della propria condizione, tra desiderio di guarigione e resistenze forti. La malattia viene quasi personificata con le fattezze di un mostro diabolico che ci possiede.

Un aspetto inquietante, che l'Autrice denuncia in modo esplicito, è l'inadeguatezza di molti tra i cosiddetti "esperti": gli operatori che magari si presentano come specialisti di questi disturbi, ma poi cadono in affermazioni inaccettabili, in comunicazioni inefficaci ed anche in pratiche terapeutiche del tutto inadeguate e spesso nocive, come il caso limite, paradossale, della somministrazione di ben diciotto psicofarmaci nell'arco di una giornata!

Il secondo grande valore di questo libro sta nella prospettiva spirituale in cui si colloca, a partire dalla constatazione che corpo, psiche ed anima sono un'unità inscindibile nella complessità della persona umana. Troviamo perciò bellissime pagine che, a partire dalla proposta di domande sincere da porre alla propria coscienza, suggeriscono la pratica di simboli terapeutici (possono essere oggetti, luoghi, atteggiamenti interiori) e vere e proprie "liturgie terapeutiche", alle quali dedica un paragrafo veramente efficace (pp. 94-103). Si riconosce il valore della fragilità come dono, la presenza di una paura esistenziale che la fede può lenire (come insegna la bellissima citazione del pastore Martin Luther King: "La paura bussò alla porta. La fede andò ad aprire. Non c'era nessuno"), le contraddizioni, le ambivalenze e dunque i limiti della volontà razionale. L'ultimo capitolo e la coda sono una bellissima e confortante dichiarazione di fede nel Dio della Grazia, che non ci giudica ma resta a noi vicino, ci accompagna nella sofferenza e non ci abbandona.

Drewermann
Drewermann, Psicanalisi e teologia morale

Come ho scritto sopra, il libro, bellissimo e straordinariamente efficace nella sua testimonianza, evidenzia anche, tuttavia, un limite culturale che è tipico della riflessione cristiana contemporanea, sia essa cattolica, ortodossa o protestante: il rifiuto della psicoanalisi in ambito cristiano. Mi pare che ancora oggi la stragrande maggioranza dei teologi cristiani (ripeto: di OGNI confessione) mantengano un atteggiamento di critica, di sospetto o anche solo di indifferenza nei confronti di questa grande disciplina scientifica, che pure ha aperto prospettive illuminanti di comprensione dei comportamenti umani, ed anche (si pensi al caso di Jung) con uno sguardo che non smentisce affatto la dimensione spirituale e trascendente dell'approccio personale. I teologi cristiani sono tuttora ostili, o nel migliore dei casi indifferenti, di fronte alle acquisizioni fondamentali della psicoanalisi: se affrontano sistematicamente il problema e accolgono le scoperte scientifiche dei grandi studiosi, vengono dileggiati e anche perseguitati dalle loro stesse chiese, come è accaduto ad Eugen Drewermann, che pure era stato capace di uno straordinario approfondimento della tematiche psicoanalitiche in chiave cristiana (ad esempio nel testo "Psicanalisi e teologia morale"), ma che è stato vittima di una ostilità feroce da parte di suoi colleghi anche molto famosi, tuttavia ligi ad una ortodossia ottusa e cieca. Le cose mi pare non vadano meglio in ambito protestante. 

Anche in questo bellissimo libro di Clara Brunello i temi della psicoanalisi (ad esempio la relazione con i propri familiari, ed in particolare il rapporto ambivalente con la madre) sono toccati, descritti e quasi del tutto capiti, ma poi sembra che l'Autrice si fermi sulla soglia e non riesca ad arrivare alle conseguenze più importanti della sua pur acutissima analisi. Dopo aver analizzato con straordinaria sensibilità le emozioni più profonde, sembra quasi fermarsi ad un approccio comportamentista, più congeniale al razionalismo dell'etica teologica tuttora prevalente.

Ed è un vero peccato, perché in questo modo non si riesce a capire come l'anoressia sia un sintomo di disturbi profondi, tragicamente sommersi nell'oscurità dell'inconscio e che perciò sarebbe necessario riportare in superficie, come la psicoanalisi ha saputo insegnare. Altrimenti si rischia di restare imprigionati o in una recrudescenza dello stesso disturbo, o nel suo riapparire in altre forme, anche con sintomi nuovi ed inaspettati: cosa che è emersa in modo tragicamente evidente in occasione delle recenti vicende sanitarie, con questi fenomeni nuovi di paura, diffidenza, ostilità (ed anche violenza), riassunti nell'inquietante parola "distanziamento", che, dall'ambito sanitario (necessario, ma che avrebbe dovuto essere ad esso circoscritto), si è subito estesa a quello sociale (come esplicitato anche nell'informazione pubblica) e da questo all'ambito affettivo profondo, con conseguenze devastanti per l'equilibrio psicologico delle persone. 

Eppure l'Autrice stessa ricorda (p.69) che l'Apostolo Paolo aveva in qualche modo intuito un aspetto fondamentale del comportamento umano, che la psicoanalisi ha poi studiato con approccio scientifico; infatti, nel capitolo 7 dell'Epistola ai Romani, egli scrive: "non faccio quello che voglio, ma quello che detesto ... non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio". Un vero peccato che la teologia cristiana abbia interpretato queste parole in senso limitatamente moralista (ossia razionalista), anziché coglierne l'intuizione profonda, la capacità di descrizione non superficiale della complessità dell'animo umano.